lunedì 29 marzo 2010

Sesso nella stalla

Pompilio si sentiva di nuovo così, con l'urgenza di nascondersi al mondo e di andare a rifugiarsi tra la mura cadenti di quella che era stata una stalla tra le più moderne solo qualche decennio prima, quando suo padre da contadino divenne operaio e dì lì a poco smise di respirare per la polvere di calcina.
Quel tipo di urgenza veniva da sé non si capiva per quale stimolo. Dov'era era, Pompilio iniziava a fremere, mollava qualsiasi cosa e s'allontanava correndo e battendosi le mani sulle cosce con un rumore di galoppo.
La porta di ferro era come l'aveva lasciata, il paletto infilato per quanto si poteva; la polvere di ruggine odorava di dolciastro, si sfarinava sulle foglie dei rigogliosi trifogli e volava sulle spinose more invadenti. Pompilio si ponzò sui piedi e tirò forte. La porta si aprì sul buio gelido con un'eco vuota. Pompilio scalciò una grossa pietra a chiudersi l'uscio alle spalle. E respirò. Sul muro l'aspettava Margherita.
L'aveva disegnata col nero di un carbone. Era il suo segreto. Gli era venuta precisa identica. I capelli come una folta chioma di leone, le mammelle grosse coi capezzoli che puntavano i piedi, di meglio non era riuscito a fare anche dopo molte cancellature. La curva dei fianchi, le cosce e un accanimento di pelo nero, scarabocchiato con evidente frenesia. Il disegno, l'immagine, finiva alle caviglie, per fortuna, perché era già arrivato al pavimento che era una colata di cemento intrisa di strati fetidi di passato.
Era l'ora giusta: da un foro di tegole mancanti raggiava il sole che illuminava l'ignara figura ignuda. Pompilio ebbe un guizzo di piacere che gli indurì il bastone. Ogni volta lui si avvicinava lentamente e intanto faceva vagare lo sguardo sulle scritte, scritte sue proprio, che c'aveva messo giorni e giorni a farle esatte, cercando di rammentarsi sempre cosa volessero significare. Era un rito: col dito seguiva le lettere, una ad una, e ne ripeteva il suono una volta che le riconosceva. C'era il nome di Lei, MARGGERI poi lo spigolo del muro e allora si girava sull'altra parete, due TT e infine la A. Pompilio ci aveva aggiunto anche dei pensieri, che però non si ricordava più molto bene: erano lettere scritte con foga, concetti estemporanei, quel che le avrebbe fatto, ricordi d'amplessi immaginati, parole persino d'amore. Pompilio era un ragazzo serio. Purtroppo aveva studiato poco perché il maestro lo tirava sempre per le orecchie e così lui un giorno s'era vendicato e gli aveva stritolato i coglioni, che era quello l'unico punto dove allora arrivava. Così i genitori l'avevano messo a lavorare un po' qua e un po' dove capitava.
La vecchia stalla era diventata il rifugio di Pompilio. Lui l'aveva ripulita dei resti di sterco seccato, della paglia marcita. Lui passava lo scopettone di saggina a tener pulita la parete di Margherita dalle pesanti ragnatele.
Poi veniva il momento più desiderato. Come in un gioco di attese e preliminari, Pompilio si avvicinava a Margherita. Che era grande. Più alta di lui, nonostante gli sforzi di disegnarla a propria misura. Pompilio la guardava per un attimo in viso e poi scendeva a rimirare le mammelle, le sfiorava con le dita, mentre il cazzo gli spingeva i pantaloni luridi di tanti lavori. Poi le smanacciava la fica e intanto parlava, domandava, ordinava, finchè non si sbottonava la patta e tirava fuori l'uccello. Margherita lo fissava allora attonita, di quello sguardo così eccitante che gli piaceva tanto. E lui si metteva in mostra: guarda, guarda, diceva, un altro cazzo così non lo trovi. E stantuffava e soffiava dal naso, pestava i piedi e prometteva litri di sborra. E così era. Dopo un grido che pareva un risucchio, Pompilio veniva, impugnando l'uccello come un idrante a disegnare sul muro lettere nuove mai inventate che colavano in merletti di nerofumo.